Bloom chiama ‘precursore’ il poeta-padre e ‘efebo’ il poeta-figlio: «ogni efebo post-cartesiano è uno gnostico senza saperlo.» (AI 88). Il precursore è il ‘dio ignoto’ e l’efebo è il demiurgo ribelle, oppure il precursore è un ‘arconte’ gnostico che si interpone tra l’efebo e la sua visione infinita (l’oscillazione è la medesima che esisteva sul piano psicologico, tra un padre come valore da imitare e un padre come nemico da combattere.) Il poeta ormai consacrato dalla tradizione stringe il poeta nuovo in un perfetto circolo vizioso: se sarai uguale a me, allora non potrai mai diventare padre, cioè sarai diverso da me – se sarai diverso da me, allora potrai a tua volta diventare padre, cioè sarai uguale a me. ‘Ti ordino di essere trasgressivo’: questo è il paradosso della modernità.
Già Lukàcs aveva notato che «proprio quando la visione religiosa del mondo si decompone, si svuota, l’arte si lega a fattori religiosi più di quanto accadesse da secoli»[19], ed era andato vicino a trasformare il suo ‘quando’ in un ‘perché’: l’arte moderna cioè prende il posto di una religione rimossa. Il lavoro di Bloom permette di precisare in qualche punto questa splendida intuizione. Andando alla ricerca delle origini della lirica moderna, Bloom arriva fino a Milton, e avverte che 1ì bisogna fermarsi – prima è veramente un’altra cosa, il rapporto ‘gnostico’ non è più rintracciabile. Impossibile non riflettere a questo punto che tra Shakespeare e Milton c’è la frattura puritana – cioè il trionfo di una religione rigoristica e razionalistica. Altrove Bloom nota che per Giordano Bruno l’infinito era ancora euforico, per Pascal è già oppressivo. Credo di non travisare il pensiero di Bloom se dico che per lui le radici della poesia moderna stanno in quei cent’anni decisivi 1650-1750, che segnano appunto la vittoria del razionalismo borghese e l’irrimediabile declino dell’ermetismo magico e mistico.
Da allora il testo poetico assume alcune delle caratteristiche del testo sacro. Ma la religione repressa che ritorna è solo in parte quella effusiva, unitiva (insomma neoplatonica) secondo cui Dio è il supremo poeta e il mondo è il suo poema, con la conseguente promozione del poeta a continuatore di Dio («non potrebbe la Bibbia continuare ancora?», diceva Novalis). Quella che ritorna è appunto una religione repressa, una religione magica a cui spesso il poeta medesimo ‘non può permettersi di credere’: antagonistica e paradossale fin dall’origine, nessuna meraviglia che si trovi a coincidere con quella che era stata per eccellenza la religione della scissione e del rovesciamento. Non per nulla lo gnosticismo antico era stato una tipica religione della belatedness [20].
Il Dio che dovrebbe dettare il poema appare sempre più lontano, così lontano che si può dubitare che esista; o meglio, esiste solo in negativo, nutrito dalla forza (sempre crescente quanto più ci si avvicina alla nostra epoca) con cui il poeta rifiuta il mondo – e il rifiuto è tanto più gridato quanto più si sospetta che il mondo abbia ragione. Il poema moderno si chiude in un’autosufficienza che è oppressa da sensi di colpa, che è letteralmente un ‘chiudere gli occhi’: nella tematica c’è spesso una regressione dal vedere al toccare o all’immaginare. Quanto più l’invenzione poetica rifiuta il mondo, tanto più è preda dell’ansia: la tradizione rifiutata ritorna sotto forma di inquietudine e di angoscia. Il poeta moderno disprezza quella tradizione da cui vuole essere disperatamente essere accettato: per questo la sua parola è preda di una reazione difensiva: ironia, antitesi, iperbole, ellissi possono essere figure privilegiate, ma più che la singola figura conta il disegno difensivo che le lega. prima ancora che contro un pubblico, il poeta moderno scrive contro la poesia, contro il proprio voler essere poeta: contro quell’Assoluto inesistente di cui non può fare a meno: «le poesie sono delle invocazioni apotropaiche… cercano di evitare l’abisso che è implicito in ciò che esse presumono di se» (AI 114). Al centro della poesia moderna c’è un quasi perfetto solipsismo – frutto di un narcisismo ferito – che attualizza il modello dello ‘pneumatico’ gnostico esule in terra straniera. Il Padre buono si sottrae e si confonde al Demiurgo cattivo: bisogna fuggire la poesia perché appena eletta diventa stupida e banale, ma nello stesso tempo non si può fare a meno dell’esistenza di altri poeti: «l’efebo scopre con orrore il proprio incurabile caso di continuità» (AI 33). Se Dio-Padre e dieu trompeur si confondono, allora sono indistinguibili elezione e maledizione, preghiera e bestemmia, supplica e vendetta: bisogna rispondere inganno per inganno: il poeta tende più a rubare (a mistificare) che a imitare. Il poeta-padre pronuncia parole sublimi che suonano false: così bisogna dire parole antisublimi perché suonino vere: bisogna vergognarsi dell’enfasi sentimentale – ma per riconoscersi poeti (per ‘salvarsi’) bisogna ritrovare una ‘sublimità residua’, che spesso è «more unconditioned and absolute, because closer both to solipsism and to madness» (MM 119)[21]. Il sublime è raggiungibile soltanto attraverso qualcosa che lo nega: bisogna difendersi dai tropi precedenti senza far morire i tropi. Come il fedele gnostico fingeva l’immoralità e l’irreligiosità perché la morale e la rivelazione erano ormai in mano al cattivo Demiurgo, così il poeta contemporaneo finge una bruta letterarità, ma questa simulazione lo tortura: «mentre i poeti scartano verso il basso succedendosi nel tempo, hanno tuttavia l’illusione di ritenersi più duri e precisi dei propri precursori» (AI 74).
Con l’aiuto dei miti gnostici, Bloom affronta un problema che credo fondamentale per la poesia moderna: quello di una ‘tradizione della non-tradizione’ – e cerca di delinearne modelli formali: come quando rintraccia sei ‘momenti’ nei rapporti tra efebo e precursore: 1) scarto volontario rispetto alla poesia del precursore 2) rovesciamento di termini ‘come se il precursore non fosse andato abbastanza avanti’ 3) autosvuotamento, ‘fin quasi a cessare di essere un poeta’, usato strategicamente per svuotare il precursore 4) antisublime, in relazione al sublime del precursore 5) ‘scoperta dei propri limiti’, che contemporaneamente pone dei limiti al precursore 6) ‘tenere aperto’ al precursore, essendo ormai l’efebo convinto di essere lui a creare il precursore[22].
Credo che indicazioni come queste possano essere molto utili agli studi sulla intertestualità[23] nella poesia moderna, a ‘dare un nome’ a elementi formali che per ora restano tanto essenziali quanto vaghi. Ma la mia è un’ipotesi o una scommessa, perché purtroppo il quadro complessivo in cui queste indicazioni sono inserite e le analisi concrete condotte da Bloom sono tutto sommato assai poco convincenti.
6. Il primo errore è un’indebita generalizzazione; ciò che sembrava interessante – e meritevole di ulteriore verifica – se applicato alla lirica moderna, Bloom lo applica a tutta la poesia, e poi a tutta la letteratura, anzi a tutti i testi, siano essi letterari, storici o critici. Ogni testo sarebbe quindi un travisamento di testi precedenti, ogni autore sarebbe preda della gnostica ‘anxiety’, costretto a citare testi precedenti proprio mentre vorrebbe allontanarsi da essi; in una spasmodica corsa all’indietro, ogni testo è revisionista rispetto a un proto-testo irrintracciabile[24]: ogni parola è una citazione repressa — la regina delle figure è quella che viene chiamata alla greca ‘metalepsis’ o alla latina ‘transumptio’: una rara figura della retorica classica[25] di cui Bloom rinnova il senso, dandogli quello generico di ‘figura di secondo grado’, o ‘figura di una figura’ (e il secondo grado non è che il caso particolare di un potenziale grado ennesimo). Impossibile allora interpretare un testo, perché ogni testo è deviato rispetto alla sua lettera, e poi deviato rispetto alla deviazione e così via: «non ci sono letture giuste… e il significato consiste sempre nel suo vagabondare tra diversi testi» (KC 109).
Ma è qui che la sua concezione religiosa viene in aiuto a Bloom: il perpetuo fraintendimento non è che perpetua allegoria, l’allegoria è il modo gnostico per salvare dall’ottuso orrore della storia la scintilla divina: e questa scintilla è unica. Torna buono l’averroismo di Emerson, secondo cui c’è un’unica mente comune a tutti gli individui, e il suo neoplatonismo, per cui «l’universo è rappresentato in ciascuna delle sue particelle» e «l’intero appare dovunque una sua parte si manifesta»[26]. Si assolutizza il fatto che il meccanismo della conoscenza alteri insieme il conoscente e il conosciuto, e lo si trascrive religiosamente: il mondo della conoscenza è un continuum fluido in cui l’unica certezza è data dalla corrispondenza tra il ‘Dio che è in noi’ e il ‘Dio che è fuori di noi’. Il dio mutilato che è nell’interprete coglie il testo da interpretare come la «parte di un tutto mutilato» (KC 112): non si può liberare la scintilla se non essendo quella scintilla: «una teoria della poesia deve appartenere alla poesia, deve essere poesia» (KC 111). Il travisamento del precursore da parte dell’efebo è paradigmatico del nostro travisamento del nuovo poeta: «loving poetry is a Gnostic passion… because the lover longs to be yet another Demiurge» (AG 17).
La critica si identifica con la lettura innamorata[27]; la legge del travisamento, invece di essere lo scacco definitivo per 1’interpretazione, è allora la sua unica guida: tutti i sensi sono possibili in astratto, in concreto il critico forte può fare, in un determinato momento, una sola lettura autentica, cioè travisare il testo nel senso che è voluto dalla sua propria autobiografìa (spirituale). Ireneo diceva degli gnostici che «qualunque cosa sentono di sperimentare loro stessi, lo ascrivono alla parola divina»[28]. «In the deep reading of a poem what you came to know is … a realization of events in the history of your own spark or pneuma, and your knowing is the most important movement in that history» (AG 8). Il soggettivismo critico è l’altra faccia dello scetticismo ermeneutico. Il significato è in ultima istanza determinato da un ‘cenno’ divino: la lettura anarchica si rivela lettura ‘teocratica’. L’unico modo di leggere il testo letterario / testo sacro è di leggerlo in una luce così inclinata che il testo ci rimandi la forma del nostro proprio volto.
Più ancora che la ‘misprision’ o la ‘metalepsis’, il luogo che deve essere privilegiato dal critico forte è 1’«image of voice», quell’aura che sta intorno alle parole ma non si identifica con esse: «hear my voice, and not just my words» (AG 186). A Bloom non interessa il testo in quanto espressione (cioè in quanto costruzione fatta con quelle entità oggettive che sono le parole e le regole di codice), ma solo in quanto impressione: gli interessa l’ ‘anima’ che sta dietro il testo, la «confuse et vive animation cui prècéde la parole»[29] e la «volontà di rappresentazione che rimane dopo che la rappresentazione è stata raggiunta» (ST 385). (La sua passione per lo pseudo-Longino contro Aristotele deriva tra l’altro dall’essere lo pseudo-Longino l’antenato spirituale dell’impressionismo critico: «il sublime è l’eco di un’anima grande»). Ogni gerarchia strutturale del testo viene così fatta saltare, il ‘cuore’ della corrispondenza mistica può battere in una zona secondaria e del tutto marginale del testo stesso. Quando Bloom ci dice che «Gnostic knowledge is about the particular» (AG 5), non si richiama alla capacità induttiva o alla necessità di un ‘paradigma indiziario’: invoca piuttosto una intuizione che congiunga immediatamente l’estremamente particolare con l’estremamente generale[30]. A schemi generalissimi, in cui ogni testo – letterario o no – dovrebbe essere compreso, si alternano analisi (spesso affascinanti, del resto) di minimo dettaglio su singoli passi: manca il confronto dell’intuizione con l’individualità complessiva del testo, col suo ‘scheletro’, con la sua ‘posizione’: manca del tutto ogni verifica, diciamo così, quantitativa. I suoi esempi sono sempre significativi in quanto intensi, non in quanto estesi. A Bloom l’esistenza reale del testo interessa meno del suo effetto: «what is that we want our tropes to do for us?» (AG 31). Più che l’ ‘interpretatio’ gli sta a cuore quella che gli esegeti biblici chiamavano l’ ‘applicatio’: l’importanza che il testo sacro ha per noi; con l’aggravante che le ‘regole di attualizzazione’ variano col variare del grado di ‘maturazione’ dell’interprete. E l’interprete sembra, a dir la verità, piuttosto tenero con se stesso; il suo ‘revisionismo’ vuole combattere il padre, ma senza arrivare a uno scontro mortale con lui; di fronte alla brutalità del reale, testo e interprete stanno dalla stessa parte: il testo si lascia piegare agli scopi dell’interprete, purché l’interprete riconosca che le proprie esigenze conoscitive sono pienamente soddisfatte dal testo[31].
_______________________________________________________________________________________________________________________________
>> Pubblicato nel 1985 su Rivista di letteratura italiana, n. III